Fabio Viglione, il penalista che combatte certe riforme sulla Giustizia Italiana.


Foto: Fabio Viglione.

                                                                                              SALVINOCAVALLARORUBRICANUOVA Rubrica “Incontri”

                                                                                                A cura di Salvino Cavallaro

Il mio proseguire la cura della rubrica “Incontri” per conoscere personaggi e luoghi che possano raccontare la vita e tanto altro, questa volta mi ha portato a Roma. Già, Roma, città eterna. E’ la capitale dalle mille contraddizioni, capaci di intersecarsi tra una storica e immensa cultura che traspare evidente tra le pieghe di ogni angolo e uno stato depressivo d’incuria che emerge evidente da situazioni civiche e sociali che la fanno apparire trasandata. Peccato, perché quelle volte che veniamo in questa città vorremmo respirare un’altra aria, quella dell’orgoglio che ogni capitale dovrebbe infondere. Tuttavia, pur nell’immancabile delusione, Roma resta sempre il centro di quel turismo universale che si manifesta dalle lunghe code per accedere ai Musei Vaticani, piuttosto che al Colosseo, in Piazza San Pietro, Piazza Venezia, ai Fori Imperiali, Fontana di Trevi e mille altre attrazioni storico culturali. Ma la capitale è il cuore pulsante del pallone che divide il tifo tra Roma e Lazio, ed è anche sede del Governo, degli uffici statali e di tanti professionisti che gravitano intorno all’immensità di una città sempre bisognosa di tanta specifica professionalità. E così, non per caso, ci troviamo nello studio dell’Avv. Fabio Viglione, giovane penalista che svolge attività professionale su tutto il territorio nazionale, garantendo assistenza difensiva sia in ambito giudiziale e di consulenze in materia di diritto legale. Stanze che parlano di romantico gusto del passato, attraverso oggetti che identificano il suo amore per le antichità, come ad esempio una vecchia radio che sembra trasmettere ancora una partita di calcio del Grande Torino, attraverso la voce di Nicolò Carosio. Mi piace evidenziare queste piccole grandi cose che fanno parte dell’uomo, ancor più del professionista assai attento e preparato in ambito legale. Tuttavia, con l’Avv. Viglione ho preferito intrattenermi su temi di attualità giudiziaria, proprio per fare chiarezza su tante domande che spesso ci facciamo nel nostro quotidiano mediatico, in cui ci giungono informazioni non sempre attendibili e quindi non corrette.

Avv. Viglione, cosa pensi di questo Governo che litiga continuamente?

Questo Governo, come il precedente, anche se per ragioni ed in condizioni diverse, è nato in assenza di una coesione programmatica di ampio respiro. Quando mancano le condizioni per un’azione condivisa in una coalizione di Governo si finisce per dar corso ad un periodo più o meno lungo ma caratterizzato dalla precarietà. L’unica certezza è l’incertezza. Sembra una coabitazione da “separati in casa”. Si ha la sensazione che tutti siano in perenne campagna elettorale. Il rischio è quello di perdere quotidianamente terreno sul piano dell’azione riformatrice nei settori più delicati e bisognosi di interventi.”

Manette agli evasori”. Uno slogan?

Credo di sì. Peraltro, neanche particolarmente originale (Penso alla famosa legge 516/82 nota proprio come “manette agli evasori”). Alcune forze politiche fanno ampio ricorso agli slogan, alla propaganda, a “norme manifesto”, che arrivano immediatamente alla gente ed evocano punizioni esemplari. Risvegliano ed eccitano sentimenti di avversione nei confronti di categorie di persone ritenute responsabili di esecrabili comportamenti. Nella ricerca del consenso funziona. Io sono dell’avviso che l’assetto normativo debba bilanciare un piano di punizione, in funzione repressiva, con efficaci forme di prevenzione. Parto sempre dal presupposto che la cura migliore è quella che non si è costretti a praticare perché il livello di prevenzione ha evitato la patologia. Credo che il tema dell’evasione fiscale vada affrontato mettendo al centro la carenza di controlli effettivi e capillari più che puntando sull’inasprimento delle sanzioni. Sono dell’idea che il numero delle fattispecie di reato debba essere diminuito per poter consentire la trattazione sollecita dei procedimenti. Un abbassamento delle soglie di responsabilità penale per le violazioni fiscali produrrebbe un ulteriore ingolfamento delle Procure e del sistema in generale, con buona pace della ragionevole durata dei processi e dell’effettività degli accertamenti. Non dimentichiamo che l’attuale numero di magistrati non è proporzionato a far fronte all’enorme carico di processi. L’evasione fiscale dovrebbe essere affrontata in modo concreto sul piano dell’illecito amministrativo, con accertamenti rapidi e forme di riparazione pecuniaria efficaci ed effettive.”

Siamo in linea con la legge “spazzacorrotti”?

Quella è ormai una legge dello Stato dal gennaio scorso. Permettimi una premessa. Io ho difficoltà a digerire questo linguaggio così aggressivo. Non solo. Credo che anche parlare di “corrotto” da “spazzare” non sia una declinazione dell’agire particolarmente esaltante. Questo non significa giustificare il colpevole. Esiste la corruzione non il “corrotto” tipologicamente inteso. Comunque, al di là della denominazione che ha caratteri propagandistici ed un registro lessicale intriso di populismo forcaiolo, le disposizioni contenute nella riforma non mi convincono affatto. Non solo, concepiscono una visione <<carcerocentrica>> della sanzione penale. Difettano di ragionevolezza, poi – come già rilevato da diverse pronunce giurisdizionali che hanno sollevato l’illegittimità costituzionale – le inclusioni di reati contro la pubblica amministrazione ritenuti ostativi a pene concrete ma alternative al carcere. Una generalizzazione ed un automatismo in ordine alla pericolosità davvero irragionevole. Sembra si stia tornando indietro dimenticando i principi costituzionali che ispirano la funzione della pena. La funzione riabilitativa rieducativa, risocializzante, della pena non può mai essere sacrificata sull’altare di ogni altra pur legittima funzione. L’obiettivo ultimo, a meno di non cambiare la Costituzione e cancellare l’articolo 27, è il reinserimento del condannato nella società. Non il suo annientamento ispirato ad un cieco furore meramente retributivo. Capisco che questi concetti hanno poco appeal propagandistico ma sono battaglie irrinunciabili per uno stato di diritto.”

Cosa si potrebbe fare per fronteggiare la corruzione?

Prevenzione, potenziare un alleggerimento della burocrazia soffocante e ingessata che produce spesso le condizioni per pratiche poco virtuose. Sempre maggiore trasparenza ed alleggerimento dei percorsi nei quali Stato e cittadino si incontrano. Esaltazione di modelli virtuosi nella famiglia come nella scuola. Il valore dell’onestà nasce e si alimenta nel quotidiano con gli esempi e le scelte che i genitori e gli insegnanti devono essere in grado di spiegare. Si deve partire sempre dalla formazione, dalla cultura. Non credo che la corruzione – degenerata prassi non certo recente e neanche moderna – si combatta più efficacemente solo con l’inasprimento delle pene e più carcere. Le pene comunque ci sono e sono massimamente severe. Vi sono poi le interdizioni correlate alla sanzione principale che fanno il resto. La corruzione esiste, purtroppo da migliaia di anni, da ogni epoca e in ogni società. E’ certamente una malattia, ma se diventa un’ossessione c’è il rischio di far perdere di vista anche le forme più equilibrate ed efficaci di contrasto. L’equilibrio è parola chiave anche quando si affrontano questi fenomeni.

Anche la prescrizione, un tema che ti sta particolarmente a cuore, sembra creare tensioni nell’attuale maggioranza.

Sul tema della prescrizione dei reati si è registrato il trionfo della demagogia che ha portato all’approvazione di una legge che ha ulteriormente peggiorato, a mio avviso, un quadro già non particolarmente virtuoso. Il precedente Governo ha eliminato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Con efficacia differita: dal gennaio 2020. In altri termini ha dato vita ad un processo potenzialmente senza tempo, con l’effetto di trasformare il cittadino interessato in un imputato in servizio permanente effettivo. La prescrizione fissa un termine, particolarmente lungo, entro il quale il cittadino deve essere giudicato. La Costituzione riconosce il diritto a un “tempo ragionevole” per la celebrazione del processo. E allora, che cosa accade? Con questa riforma che dovrebbe partire dal prossimo gennaio, dopo la sentenza di primo grado la prescrizione non opererà più. Che sia stato condannato o assolto in primo grado, il cittadino sarà consegnato ad un tempo indefinito per la celebrazione degli altri gradi di giudizio. Sì, anche in caso di assoluzione in primo grado… Tre anni, dieci anni, quindici anni? Non ci sarebbe alcun limite. Naturalmente, con i carichi di contenzioso esistenti, la prospettiva di tempi non certo “ragionevoli” è molto concreta. E poi la prescrizione è un principio di civiltà giuridica non sacrificabile sull’altare della facile propaganda. Ma spesso il dibattito si è risolto nella citazione di casi giudiziari noti all’opinione pubblica definiti con la prescrizione e si è confezionato un formidabile spot per la riforma.

Com’è stato possibile, secondo te, che sia stata pensata e approvata questa legge dal precedente Governo ?

Domanda interessante. Io ho una spiegazione che attiene proprio al messaggio che si è fatto passare. Si è partiti dalla negazione culturale del principio di presunzione di innocenza e si è assimilato l’imputato al colpevole. Una sorta di strisciante sillogismo ha trasformato, così, la prescrizione in un regalo immeritato per il colpevole, graziato dalla mannaia dell’orologio. Il tempo è scaduto e il colpevole è stato beneficiato dalla prescrizione. “L’ingiustizia è servita!”. Ma le cose non stanno così. La prescrizione è una resa per tutti, un fallimento del sistema che non è in grado di celebrare il processo in tempi ragionevoli. L’obiettivo deve essere quello di non arrivare alla resa, alla prescrizione, che non consente un accertamento nel merito. La sostanziale abolizione della prescrizione, dopo la sentenza di primo grado, invece, sbilancia in danno del cittadino l’inefficienza del sistema. E allora non può affrontarsi una criticità del sistema creando una situazione di obiettiva iniquità. Non è possibile, anche per reati di scarso allarme sociale, consegnare al cittadino l’incertezza della sua sorte processuale facendolo vivere in un limbo senza tempo. Come organizzerà la sua vita, il suo lavoro, le sue relazioni se non sarà in grado di prevedere quando il suo processo penale vedrà la fine? E allora, uscendo dal messaggio demagogico, non si colpisce il colpevole graziato dalla prescrizione ma si consegna un accusato, presunto innocente, (talvolta assolto in primo grado) alla potestà punitiva dello Stato per un tempo indefinito. Questo non è ammissibile in uno Stato di diritto. Ecco perché non solo i penalisti ma anche molti magistrati hanno espresso, insieme a tutta l’Accademia- mai così compatta- un ragionato dissenso. Ma anche in caso di condanna definitiva e pena da scontare, è profondamente ingiusto eseguire la sanzione ad enorme distanza dalla commissione del fatto. Si finisce per far entrare in carcere <<un’altra persona>> rispetto a quella che molti anni prima ebbe a commettere il reato. Ed ecco che il tema centrale ritorna: una giustizia lenta è sempre una giustizia <<ingiusta>>.”

Nei giorni scorsi ha fatto discutere una pronuncia della Corte Costituzionale sui permessi premio ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di criminalità organizzata.

Parto dal presupposto che le sentenze si rispettano anche se possono essere criticate. Quelle della Corte Costituzionale poi, sono sentenze particolarmente importanti perché alta è la funzione che svolge la Consulta nel mettere sempre le leggi in rapporto dinamico con i principi costituzionali da salvaguardare e ai quali devono ispirarsi. Ora, mi pare che alcune critiche a questa sentenza siano state poco rispettose della funzione della Corte ed hanno fatto leva sulle solite scorciatoie demagogiche. La Corte Costituzionale non ha eliminato il cosiddetto “ergastolo ostativo”, né la presunzione di pericolosità per determinate tipologie di reati. Ha soltanto declinato automatismi di presunzione assoluta di pericolosità in situazioni da monitorare caso per caso attraverso una valutazione del percorso intrapreso dal singolo condannato ad opera del Tribunale di Sorveglianza. Una sentenza che ritengo massimamente equilibrata. Leggendo alcuni commenti, si è invece fatta passare, in modo allarmistico e sensazionalistico, per una sostanziale abolizione dell’ergastolo che avrebbe determinato la scarcerazione di pericolosissimi criminali. Anche alcuni esponenti del mondo politico hanno pesantemente criticato la sentenza finendo per far passare questo messaggio. Ma così non è. Finché avremo questa Costituzione (speriamo il più a lungo possibile) non potremo mettere da parte la funzione della pena e la necessità di guardare sempre alla personalizzazione della sanzione, al percorso di recupero del condannato che non può essere ininfluente in quest’ottica. Quando si chiude la porta del carcere, non è tutto finito. Non può e non deve essere così. Inizia un percorso che va monitorato con attenzione e serietà. “Gettare le chiavi” e far “marcire in galera” i condannati, sono espressioni che lascio pronunciare ai sostenitori del populismo giustizialista e dalle quali mi distanzio culturalmente. Rifiuto poi il principio che un uomo, pur intraprendendo un percorso di positiva elaborazione dell’errore, possa perdere il diritto alla speranza. In questo senso, nella Costituzione e nei valori che l’hanno ispirata mi riconosco pienamente.

Seguendo questo percorso, è inevitabile parlare di un altro tema che ti sta a cuore: il rapporto tra processo e informazione.

Direi che è diventato un tema sempre più centrale. C’è una realtà ed una percezione della realtà che si veicola attraverso l’informazione. Questo vale anche in relazione al tema della sicurezza. Ma nella cronaca giudiziaria è importante partire da due considerazioni, l’una conseguenza dell’altra. Il ritmo del processo e quello dell’informazione sono profondamente diversi. L’informazione ha tempi massimamente rapidi e cerca di offrire soluzioni immediate all’ansiosa voglia di sapere dell’opinione pubblica. Il processo è fisiologicamente più lento e necessita di ponderazione nella ricerca degli elementi utili alla ricostruzione di un accadimento portando ad emersione aspetti decisivi del fatto da giudicare a distanza di tempo. Spesso questa chiarificazione avviene in una fase avanzata dell’accertamento. Da questa prima considerazione ne discende un’altra. Nel tempo in cui si consuma il ritmo dell’informazione, non può che emergere solo la tesi dell’accusa, quella che porta ad un avviso di garanzia o ad un arresto. I materiali sono naturalmente quelli raccolti dagli inquirenti che sostengono una determinata tesi. Quando si entra nel pieno dell’accertamento, anche attraverso il contributo della difesa in dibattimento, la cronaca di quel determinato processo ha ceduto il passo ad altre notizie “più fresche”. L’evoluzione e, spesso, anche l’esito finiscono per perdere di interesse. In questo senso, l’informazione finisce per trattare con grande evidenza solo l’avvio del procedimento e tralasciare lo sviluppo e l’esito. Non esistono soluzioni a portata di mano per uscire da questo squilibrio che parte proprio dal diverso ritmo processo-informazione. Certamente la laicità con la quale offrire le notizie dell’avvio di un’indagine, qualche “condizionale” in più, la ricerca – nella costruzione del servizio – anche della tesi difensiva rappresentano atteggiamenti di cui si sente gran bisogno”.

Spesso si sente invocare la necessità di <<certezza della pena>> per dare credibilità al sistema. Qual è il tuo punto di vista?

Il sistema sanzionatorio e la sua credibilità passano dalle certezze. Ed in questo senso ritorna quello che dicevamo prima: tempi eccessivamente lunghi fanno perdere credibilità alle risposte punitive previste dall’ordinamento perché troppo lontane dal fatto da sanzionare. Più la sanzione si allontana dal momento di commissione del reato più perde la propria efficacia, le sue molteplici funzioni. Ma certezza della pena non significa guardare con favore all’adozione di un modello <<carcerocentrico>>. Si tratta ovviamente di approcci culturali. Credo che il sistema di un carcere generalizzato per tutti i tipi di reato, sia un sistema certamente vecchio e obiettivamente superato. Al netto, poi, del tema del sovraffollamento e delle condizioni dei detenuti all’interno delle strutture. Io credo nelle pene alternative e credo nel loro potenziamento sul quale si può ancora lavorare. Queste pene “più dinamiche” non hanno nulla a che vedere con un vuoto perdonismo. Si tratta di risposte effettive ma molto più in linea con la funzione risocializzante della pena e non in contrasto con l’effettività della sanzione. Un monitoraggio effettivo sul comportamento del condannato e sul suo percorso riabilitativo. Se la pena fosse vissuta come una più dinamica riparazione dello “strappo” con l’inizio di un percorso realmente risocializzante, lo statico modello carcerario per molti reati potrebbe e dovrebbe essere messo da parte. Peraltro, una pena meno statica ed alternativa al carcere reca con sé un sostanzioso affievolimento del rischio di recidiva. Lo dicono i dati sulla recidiva. Ricadono molto di più coloro i quali hanno conosciuto il carcere e scontato la pena inframuraria rispetto a quanti hanno espiato una pena alternativa. Torniamo quindi alla necessità di stimolare un percorso processuale dai tempi meno irragionevoli e meno distante, nel momento dell’esecuzione dalla commissione del fatto.

Salvino Cavallaro

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